di Donna Haraway
tratto da Manifesto Cyborg
Nell’immaginario occidentale, i mostri hanno sempre tracciato i confini della comunità. I centauri e le amazzoni dell’antica Grecia, immagini della disgregazione del matrimonio e della contaminazione del guerriero con l’animalità e la donna, hanno stabilito i limiti dell’accentrata polis del maschio umano greco. I gemelli indivisi e gli ermafroditi erano il confuso materiale umano della Francia agli albori della modernità, il cui discorso si fondava sulle categorie di naturale e soprannaturale, medico e legale, portento e malattia, che sono centrali nella definizione dell’identità moderna. Le scienze evoluzioniste e comportamentiste di scimmie e scimpanzé hanno disegnato i confini multipli delle identità industriali del tardo Ventesimo secolo. I mostri cyborg della fantascienza femminista delineano possibilità e confini politici piuttosto diversi da quelli proposti dalla finzione terrena dell’Uomo e della Donna.
Molto consegue dal riuscire a pensare le immagini dei cyborg come altri dai nostri nemici. I nostri corpi, noi stessi: i corpi sono mappe del potere e dell’identità. I cyborg non fanno eccezione; un corpo cyborg non è innocente, non è nato in un giardino, non cerca un’identità unitaria e quindi non genera antagonistici dualismi senza fine (o fino alla fine del mondo). Il cyborg presume l’ironia; uno ètroppo poco, e due è solo una possibilità. L’intenso piacere della tecnica, la tecnica delle macchine, non è più un peccato, ma un aspetto dello stare nel corpo. La macchina non è un quid da animare, adorare e dominare; la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione. Noi possiamo essere i responsabili delle macchine, loro non ci dominano né ci minacciano; noi siamo i responsabili dei confini, noi siamo loro. Fino a ora (sembra un secolo) avere un corpo femminile sembrava scontato, organico, necessario, e consisteva nella capacità di fare da madre e nelle sue estensioni metaforiche. Solo stando fuori posto abbiamo potuto godere dell’intenso piacere delle macchine e quindi appropriarcene, col pretesto che in fondo si trattava di un’attività organica. Il mito dei cyborg considera più seriamente l’aspetto parziale, a volte fluido, del sesso e dell’abitare sessualmente il corpo. Il genere in fondo potrebbe non essere l’identità globale, pur avendo un respiro e una profondità radicati nella storia.
La complessa questione ideologica di cosa conti come attività quotidiana, come esperienza, può essere esplorata sfruttando l’immagine dei cyborg. Le femministe hanno sostenuto di recente che le donne sono dedite alla quotidianità, che le donne in certo qual modo provvedono alla vita quotidiana più degli uomini, e che quindi occupano, potenzialmente, una posizione epistemologica privilegiata. Questa è in parte un’affermazione innegabile, che rende visibile la svalutata attività femminile e la colloca alla base della vita. La base della vita? Ma allora, tutta l’ignoranza delle donne, le esclusioni e le carenze di abilità e conoscenza? Che dire dell’accesso maschile alla competenza quotidiana, al saper costruire, smontare, giocare con le cose? Che dire delle altre assunzioni di corpo? Il genere cyborg è una possibilità locale che si prende una vendetta globale. La razza, il genere, e il capitale richiedono una teoria cyborg di parti e di interi. Nei cyborg non c’è la pulsione a produrre una teoria totale, ma c’è un’intima esperienza dei confini, della loro costruzione e decostruzione. C’è un sistema di miti in attesa didiventare un linguaggio politico su cui basare un modo di guardare la scienza ela tecnologia e di sfidare l’informatica del dominio per un’azione potente.
Un’ultima immagine. Gli organismi e la politica organismica, olistica,dipendono dalle metafore di rinascita e invariabilmente attingono alle risorse del sesso riproduttivo. Vorrei suggerire che i cyborg hanno più a che fare con la rigenerazione e guardano con sospetto alla matrice riproduttiva e alla nascita in genere. Per le salamandre, dopo una ferita, come per esempio la mutilazione di un arto, c’è una rigenerazione che comporta la ricrescita di una struttura e il recupero di una funzione, con la possibilità costante di una gemellazione o di altre strane produzioni topografiche al posto della mutilazione. L’arto ricresciuto può essere mostruoso, doppio, potente. Siamo stati tutti feriti, in profondità. Abbiamo bisogno di rigenerazione, non di rinascita, e le possibilità della nostra ricostituzione includono il sogno utopico della speranza in un mondo mostruoso senza il genere.
Le immagini possono aiutarci a esprimere due tesi cruciali a questo saggio: primo, la produzione di teorie universali e totalizzanti è un grave errore che esclude gran parte della realtà, e questo forse sempre, ma certamente ora; in secondo luogo, assumersi la responsabilità delle relazioni sociali della scienza e della tecnologia significa rifiutare una metafisica antiscientifica, una demonologia della tecnologia, e di conseguenza significa accettare il difficile compito di ricostruire i confini della vita quotidiana, in parziale connessione ad altri, in comunicazione con tutte le nostre parti. Il punto non è solo che la scienza e la tecnologia offrono all’umanità il mezzo di ottenere grandi soddisfazioni e sono matrici di complesse dominazioni. Le immagini cyborg possono indicarci una via di uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti. Questo è il sogno non di unlinguaggio comune, ma di una potente eteroglossia infedele. È l’immaginazione di una femminista invasata che riesce a incutere paura nei circuiti dei supersalvatori della nuova destra. Significa costruire e distruggere allo stesso tempo macchine, identità, categorie, relazioni, storie spaziali.
Anche se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg che dea.